Per due settimane, a settembre, ho passato 8 ore al giorno in aula con un gruppo di 3 ragazzi e 11 ragazze. Il mandato del committente – un’agenzia di lavoro interinale – era svolgere un corso di comunicazione. La genericità mi ha illuminato d’immenso dubbio: ma hai presente che sotto quell’etichetta ci può stare di tutto, da Jacobson alla PNL?
Fasce d’età: 22-25; 31-38; una 50 e una 55. C’era chi cercava lavoro per la prima volta, chi si voleva riciclare, chi aveva fatto una scelta sbagliata, chi cercava di trovare il bandolo, chi si voleva rinforzare. Tutti diplomati, chi con laurea conclamata (2), chi con università abbandonata (3), chi con laurea-ci-sono-quasi (3).
Vuoi parlare davvero di Jacobson?
Le prime due ore le ho trascorse a capire chi avevo di fronte. Uno per uno i miei allievi hanno snocciolato studi ed esperienze e tutti, uno per uno, si sono sentiti rivolgere la stessa domanda: qual è il tuo sogno? Che cosa vorresti davvero fare?
Qualcuno ha fatto la supercazzola, qualcuno voleva un generico posto fisso, qualcuno voleva “semplicemente” slogarsi (fare logout) dalla famiglia e qualcuno non ne aveva un’idea compiuta. E va bene, ho pensato, i corsi di comunicazione possono servire anche a questo.
Prepararsi a parlare di sé
Abbiamo parlato di scrittura, di curriculum, di come proporsi, di come usare i social media, di come accompagnare il CV con una presentazione che non fosse il solito bla bla, di come parlare in pubblico, di come prepararsi a rispondere alle domande più varie. Abbiamo ascoltato gli speech di Miriam Bertoli e Anna Turcato al Freelancecamp e li ho introdotti, sembrava per la prima volta, al mondo dei freelance.
La partenza è stato il racconto di un libro letto, l’arrivo è stata la presentazione di un argomento. Tutti, tranne uno, alla fine hanno fatto lezione agli altri per 15-20 minuti: chi ha parlato del cambiamento del punto di vista partendo dal brano più famoso de “L’attimo fuggente” con il professor Keating in piedi sulla cattedra; chi ha dissertato sul termine “istinto” prendendo spunto da quanto suggerisce Sean Connery al ragazzo aspirante scrittore nel film “Scoprendo Forrester”; chi ha parlato dell’archetipo “Mamma” a partire dallo strafamoso spot “Grazie di cuore, mamma” di Procter&Gamble; chi ha usato le parole di “Vivere” di Vasco Rossi per rielaborare alla sua maniera il senso del tempo; chi ha spiegato metafore e similitudini prendendo spunto da una canzone di Fabri Fibra ed Elisa; chi ha parlato del concetto di semplicità facendosi guidare dalle note di “Love me do” dei Beatles.
Questi sono solo alcuni dei lavori, potrei continuare. Qualcuno è stato superlativo, qualcuno ci dovrebbe riprovare, ma nel complesso è stata una prova affrontata molto bene.
Certo, sì, ho assegnato io gli spunti, ho suggerito e fornito link, ma poi tutti hanno rielaborato e parlato in base a ciò sono e a ciò che preferiscono. Ho anche rincuorato là dove la montagna sembrava troppo alta e ho asciugato lacrime di commozione, che spero con tutte le mie forze non smettano mai di scendere.
Raccontarsi: una questione di allenamento
Alla fine del percorso ho due considerazioni che mi premono:
- L’espressione linguistica dei propri pensieri sotto forma di frasi in italiano dal senso compiuto non è acquisita, spesso nemmeno per chi è andato avanti con gli studi e si è iscritto all’università. Lacune di espressione, anacoluti, mancanza di struttura nell’esposizione degli argomenti sono all’ordine del giorno. Il fatto di aver introdotto supporti filmati e musicali ha aiutato a rendere gli speech un melange di più sapori e non l’accostamento un po’ casuale di elementi vari ma, in molti casi, non ha contribuito a migliorare l’elocutio.
- Il racconto di sé non è una pratica (tantomeno una buona pratica) incentivata in nessun ambiente istituzionalmente preposto all’istruzione e alla formazione. Posti di fronte all’esigenza di raccontarsi, ragazze e ragazzi, con poche eccezioni, si trovano in difficoltà. Sono smarriti per quella mancanza di allenamento che si percepisce lontano un miglio. Quando ho domandato ai miei allievi una breve presentazione dei loro lati positivi e negativi, eventualmente con l’ausilio di qualche supporto per sentirsi più tranquilli, qualcuno ha scaricato foto e preparato slide, qualcuno ha parlato a braccio, qualcuno ha seguito gli appunti, qualcuno ha disegnato alla lavagna. La felicità di scoprire delle parti di sé sepolte chissà dove che leggevo nei loro volti mi ha fatto scattare un pensiero: tranne pochissime eccezioni, a nessuno di loro è mai stato chiesto “chi sei”.
Forse è dai banchi di scuola che dovremmo aiutare i ragazzi all’idea del Personal Branding, nella sua forma basica, essenziale: parla di te, di come ti vedi e di che cosa, almeno ti sembra, di volere. E ripetere l’esercizio periodicamente per vedere che cosa cambia, che cosa si affina, che cosa si mette a fuoco. Ripeterlo anno dopo anno, dapprima nei contesti noti della scuola, poi in quelli meno protetti dei primi incontri con chi viene dal mondo del lavoro e dell’università.
Perché non si può parlare la prima volta di sé durante il primo colloquio di lavoro.
Perché, nel nostro mondo ad alto tasso di lavoro fluido, magari il primo colloquio di lavoro non lo farai mai, ma ne farai tantissimi, da declinare, a seconda dei contesti, con i clienti che incontrerai.
Perché ogni volta sarai tu, con la voglia di raccontarti e le parole che userai saranno quelle che avrai voluto scegliere.
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