Quando Hoepli mi ha confermato la curatela del libro Ditch Dare Do! di William Arruda e Deb Dib Personal Branding per i manager, ho pensato: perché non far scrivere la prefazione ad un Manager che incarna con coerenza i principi del libro e che conosce bene il pubblico a cui è rivolto? Dieci minuti dopo ero al telefono con Enrico Pedretti, direttore Marketing di Manageritalia!
Riporto qui il testo che secondo me coglie perfettamente lo spirito e inquadra il volume nello scenario italiano:
Mi accade spesso di dover capire se un manager e un’azienda possano essere utili al mio business. In genere, ricerco manager e aziende su Google e poi faccio qualche telefonata, cercando di comprendere quale sia il brand di quel manager e di quell’azienda, perché da questo, e solo da questo, partono tutte le relazioni umane e di business.
Sappiamo che il brand è la cosa più importante per un’azienda. Perché è noto che in quella parola, in quel payoff e nella notorietà correlata si racchiude tutto quello che ci serve per sapere chi è, che sensazioni ci trasmette e cosa potremmo fare insieme.
Per costruire un brand servono introspezione, metodo, tempo e continuità. E non è poi detto che quel brand sia comunque vivo, conosciuto e percepito per quello che veramente è o vuole essere. Bene, se questo è vero, mi chiedo perché non sia altrettanto chiaro che il brand dell’azienda lo fanno le persone che ci lavorano e gli danno vita e ancor più per- ché le persone non si pensino come un brand che deve essere comunicato per dargli sostanza e vita.
Tutto ciò è ancor più vero per un manager! Ma quanti manager sanno di essere un brand per loro, la loro azienda, i loro collaboratori, i clienti, i fornitori e tutti gli stakeholder? Pochi! E quanti lavorano per dare vita al loro Brand? Pochissimi! Lavorate in un’azienda che non vuole che voi siate un brand? Peggio ancora! Perché quell’azienda investe molto denaro per affermare il suo brand e non percepisce che, se non cura anche quello delle persone che la vivono e fanno vivere, manca un pezzo molto importante. Che oggi è il pezzo fondamentale di quel puzzle che è avere relazioni, essere riconosciuti e fare business. È finito, infatti, il tempo delle aziende possessive e dei figli bamboccioni! Oggi le aziende hanno bisogno di figli – pardon collaboratori – che camminino con le loro gambe e riportino in famiglia – pardon azienda – gli investimenti fatti su di loro.
Se tutto questo è vero, perché noi manager siamo talmente presi dalla quotidianità che non abbiamo il tempo per pensare a noi stessi come un brand da costruire e vendere, certamente per noi stessi, ma anche per l’azienda e per i collaboratori che guidiamo?
Non è un caso che William Arruda – il guru USA del personal branding del quale Luigi Centenaro ha curato la traduzione di questo agile manuale – sia partito dal branding aziendale per arrivare poi anche a quello personale dei manager. Perché l’uno senza l’altro sono zoppi. E oggi bisogna correre in un mondo sempre più ampio e globale con tutte le gambe e le forze.
È invece ancora più grave che l’autore denunci che i manager, anche i migliori, pecchino proprio nella conoscenza di se stessi. Allora serve fare introspezione per capire chi siamo veramente, per mettere ben in chiaro il nostro senso come professionisti. Se non lo conosciamo e dominiamo noi, non potranno di certo capirlo gli altri. Il rischio grosso è di non suscitare sensazioni o di provocarne di sbagliate. Certo poi serve capire quale stra- tegia di comunicazione adottare e come comunicare quotidianamente il nostro brand.
Queste cose […] adesso le ritroviamo tutte in uno snello manuale che ci fornisce basi e metodo: bastano infatti dieci minuti al giorno (così ci evitiamo la scusa del tempo) per rialzare la testa e metterla nel nostro brand.
E badate bene, questo va fatto anche se non siete digitalizzati e non frequentate Internet e i social network, professionali e non. Perché il digitale è solo un nuovo strumento, molto più potente, per vivere nel mondo d’oggi, ma queste cose andavano fatte anche nel mondo di ieri, anche se la loro diffusione era sicuramente più circoscritta. Quindi, Internet con il personal branding c’entra, ma solo come strumento principe per raccontarci e dare vita ai nostri brand. E comunque, se non siete e state “al massimo” su Internet, oggi non sarete mai un brand.
Volendo sintetizzare il messaggio e il senso di questo libro – per farlo conoscere davvero e diffonderlo con i 140 caratteri di un tweet e l’hashtag, a sottolineare le parti più importanti – è questo:
#conosci(ti) #mostra(ti) #accresci(ti) il (tuo) #brand x far crescere #te stesso, i tuoi #collaboratori, la tua #azienda e il tuo#business.
Enrico Pedretti direttore Marketing di Manageritalia
Incuriosito?
Puoi anche scaricare gratuitamente l’indice, le prefazioni, l’introduzione e il primo capitolo.